Fuori dall’armadio: Affettività, identità, omofobia

Lgbt e oltre

Orientarsi nel mondo LGBTQI+ non è affatto semplice. Lo stesso acronimo lo rende evidente, poiché include nella stessa comunità le persone lesbiche, bisessuali, gay, transessuali, intersessualità, “queer”. E’ usato per indicare tutti coloro che non si sentono rappresentati dall’orientamento sessuale eterosessuale.

LGBT

Come si è arrivati dalla contrapposizione classica tra eterosessualità e omosessualità alla moltitudine di dimensioni affettive e sessuali che la letteratura psicologica oggi riconosce negli esseri umani? Per capirlo sembra utile partire da una ironica e provocatoria affermazione di Alfred Kinsey.

Nel trattato “Sexual Behavior in the Human Male” (1948), riportando i dati della più vasta indagine mai svolta sul comportamento sessuale degli esseri umani, Kinsey affermava che

Questo mondo non dovrebbe essere diviso tra pecore e capre. E’ un principio fondamentale della tassonomia il fatto che la natura raramente ha a che fare con categorie separate […]. Il mondo vivente è un continuum in ognuno dei suoi vari aspetti”.

Un nuovo sguardo sull’omosessualità

A partire dalle ricerche di Kinsey e di Evelyn Hooker, la letteratura scientifica ha iniziato quel lento percorso di revisione scientifica e clinica dell’omosessualità, che si è mosso in due direzioni fondamentali:

  1. riconoscere che l’omosessualità è sia normale sia diffusa;

  2. riconoscere che l’omosessualità è solo una delle infinite varianti naturali del comportamento sessuale umano.

In queste linee, nel 1972 L’American Psychological Association cancella l’omosessualità dalle patologie psichiatriche. A partire dal 1974, la voce omosessualità” viene eliminata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM). LOrganizzazione Mondiale della Sanità descrive lomosessualità come una variante naturale del comportamento sessuale umano. Afferma inoltre che nessuna terapia può essere messa in atto per modificare lorientamento sessuale.

Per capire di più: sesso biologico, identità di genere, stereotipi di genere, orientamento sessuale

Iniziamo a precisare che il sesso biologico può essere definito come l’appartenenza su base genetica al genere maschile o al genere femminile. Il sesso biologico, definito dal corredo cromosomico, già nello sviluppo fetale determina lo sviluppo di organi sessuali primari coerenti con il patrimonio genetico. Nel momento della pubertà e dell’adolescenza, lo stesso corredo cromosomi indurrà lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie.

In realtà, esistono in natura varianti intersessuali, cioè con corredo cromosomico appartenente ad entrambi i sessi biologici. Alla nascita si manifestano organi sessuali di entrambi i sessi, senza informazioni sul tipo di carattere sessuale secondario che si svilupperà primariamente nell’adolescenza.

Lidentità di genere riguarda il modo in cui Io penso il mio sesso biologico, ovvero se mi penso un essere umano maschile o femminile. Questa percezione di sé, estremamente precoce, prescinde dal sesso biologico, anzi può essere in contrasto con il sesso biologico. In tal caso, ci troviamo di fronte ad una “disforia di genere”. E’ la percezione che il proprio corpo non corrisponda alla propria identità di genere e che pertanto sia necessario un “allineamento” per riconoscersi finalmente nel corpo “giusto”.

Lo stereotipo di genere o aspettativa di genere indica invece il comportamento che la società si aspetta da un essere umano sulla base del suo essere maschile o femminile. Si tratta di un ambito di prescrizioni molto vasto, fortemente determinato dalla cultura di riferimento. Lo stereotipo può portare a individuare uomini “effeminati” o donne che si comportano da “maschiacci”.

Infine, l’orientamento sessuale indica la predisposizione a provare un’attrazione affettiva ed erotica verso una persona del sesso opposto al proprio (eterosessualità) o dello stesso sesso (omosessualità) o entrambi (bisessualità).

Tutte queste variabili sono presenti contemporaneamente nello stesso individuo, ma possono modificarsi nel corso della vita. Diventa dunque chiaro che la complessità del mondo LGBT sta in questo suo potersi declinare in modi assolutamente vari e complessi.

E il pregiudizio eterosessista?

Vista la complessità del comportamento affettivo, relazionale e sessuale umano, diventa chiaro che l’eterosessualità sia solo una delle molteplici sfaccettature con cui un individuo può esprimere, in un dato momento, la propria predisposizione affettiva, relazionale e sessuale.

Anzi, il pregiudizio eterosessista è quella struttura sociale dominante per cui un qualunque individuo si considera eterosessuale a meno che non dica il contrario. Questo pregiudizio è fortemente sostenuto dalle campagne pubblicitarie che veicolano le aspettative di genere e dalle convinzioni comuni operanti a livello sociale. Una persona LGBT viene così sottoposta a uno stress, il cosiddetto Minority Stress o “stress di minoranza” (Lingiardi).

Una persona LGBT, per effetto del pregiudizio eterosessista, sarà portata a pensarsi inizialmente come eterosessuale. Quando avrà una maggiore consapevolezza della sua identità di genere o del suo orientamento sessuale percepirà la propria “devianza della norma”, che solitamente si manifesta in ansia, vissuti depressivi, senso di colpa, senso di inadeguatezza, vissuti di vergogna e disistima profondi.

Uscire fuori dall’armadio

Da questa discrepanza inizia per una persona LGBT il lungo processo di autoconsapevolezza chiamato comunemente Coming Out, dall’espressione coming out of the closet, ovvero uscir fuori dall’armadio.

Nel corso degli anni, la letteratura psicologica ha elaborato tanti modelli teorici che spiegassero le diverse fasi del coming out. In generale tutti i modelli sul Coming Out concordano nel ritenerlo un processo che ha inizio dall’accettazione di sé e si allarga alla condivisione della propria identità con familiari e amici. E’ un processo che dura tutta una vita e si muove lungo le tre direttrici fondamentali della autoconsapevolezza, della costruzione della propria identità e della condivisione della stessa identità.

E’ in ultima analisi anche un percorso in cui si può uscire dall’isolamento e costruire la propria identità sulla base dell’appartenenza alla comunità LGBT nelle sue mille sfaccettature.

Una psicoterapia per persone LGBT e uno sportello LGBT

Questo breve sguardo che abbiamo gettato insieme sul mondo LGBT ha messo in risalto una realtà talmente tanto complessa e delicata che ha convinto – e ci ha convinto – della necessità di terapeuti specializzati nelle tematiche LGBT, che sappiano sostenere il percorso del coming out e le persone LGBT nella difficile lotta all’omofobia.

Presso il Centro Psicologia Monterotondo si può pertanto portare avanti un percorso terapeutico specifico che aiuti a :

  • superare l’ansia e la vergogna;

  • elaborare la propria identità;

  • portare avanti il proprio coming out;

  • affrontare questioni legate all’omofobia, interiorizzata o sociale.

Per questi motivi, abbiamo inoltre pensato di proporre uno sportello permanente di consulenza gratuita, che può essere effettuata anche in forma anonima. La consulenza sarà rivolta soprattutto ai giovani e giovanissimi che precocemente si confrontano con dubbi continui sulla propria sessualità e affettività. Il supporto è dedicato anche ai genitori, che a volte non riescono a trovare il modo di decifrare i silenzi dei loro figli via via sempre più chiusi e solitari.

Lavorare sul corpo produce benefici per la mente?

“Ehi! come stai?”

“Bene, grazie. Ma chi sei?”                                                          lavorare sul corpo per gestire lo stress

”Non ti ricordi di me?”

“Ora che ti guardo bene mi ricordi qualcosa ma onestamente non saprei,  dove ci siamo conosciuti?”

“Questo mi fa sorridere ….”

“Puoi dirmi chi sei così …mettiamo fine a questo….??”

“Sono il tuo corpo. SONO IL TUO CORPO. Pensa, siamo insieme da tanto tempo eppure non ricordi bene chi sono. Viviamo insieme, trascorriamo intere e intense giornate, lunghe notti, grandi esperienze, terribili momenti, traumi, gioie, ansie e tensioni. Io sono la tua memoria. Sento, percepisco, immagazzino, reagisco, mi adatto. Faccio tante cose per te e ti aiuto a vivere ogni giorno rispondendo alle tue emozioni. Che peccato che tu non sappia bene chi sono io, che non mi ascolti abbastanza, che i messaggi che ti invio vengano da te ignorati. Se solo mi lasciassi parlare, se solo ti fermassi un momento ad ascoltare, se solo tu mi conoscessi di più, ti renderesti conto quale risorsa sono per te, di quanto, se ben trattato, posso aiutarti”.

Se il corpo parlasse (e la mente ascoltasse)

Ecco, chissà se qualcuno si è ritrovato in questo dialogo immaginario, se qualcuno di voi ha sorriso o se si è detto “io conosco benissimo il mio corpo e i suoi segnali”. In questo inventato scambio di battute il corpo richiama l’attenzione della mente e la invita a prestargli interesse, valorizzando quanto può offrirgli.

Le nostre giornate sono lunghe, la tensione fisica è alta così come lo è la tensione mentale, il livello di ansia cresce, e la respirazione diaframmatica diviene sconosciuta ai più. Immaginiamo quanto segue: rientriamo a casa dopo una giornata intensa, densa di impegni e appuntamenti, dove emozioni diverse e contrastanti si sono susseguite senza tregua, senza avere il tempo di metabolizzare. Il respiro corto, i muscoli in tensione, sempre pronti a scattare. Ci sdraiamo sul divano, guardiamo il soffitto e, facendo un respiro profondo, ci concediamo qualche minuto di riposo. Ma i nostri muscoli sono veramente distesi? Hanno ancora un po’ di tensione residua? E i pensieri? Come li stiamo elaborando? Come stiamo effettivamente gestendo questo momento di “rilassamento”?

Il nostro stile di vita, che fa assomigliare la nostra quotidianità più a una gara che lascia col fiato sospeso che a un vero e proprio percorso di vita, conferisce ancora più importanza all’imparare a rilassarsi.

Lavorare sul corpo consapevolmente

Consideriamo come punto di partenza il fatto che il corpo sia entrato a far parte della pratica della psicoterapia: ciò indica che il nostro corpo è una fonte inesauribile di microscopici segnali che, se ben ascoltati ed accolti, possono per noi divenire un potenziale considerevole per la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti e dei nostri punti di forza. “Soma e psiche seguono il principio dei vasi comunicanti, dunque le conseguenze di una mal interpretazione delle emozioni e delle sensazioni si riversa sul nostro fisico. Quando la nostra intimità è, per così dire, bloccata, i nostri muscoli diventano tesi, contratti e la respirazione è superficiale e ridotta al minimo indispensabile. Naturalmente questa situazione di blocco è tendenzialmente inconsapevole”.

Attraverso proprio il lavoro di decontrazione dei muscoli e della respirazione, i segnali, le emozioni e le sensazioni passano a un livello di consapevolezza, divenendo così più ricettivi nei confronti di noi stessi. A questo proposito, sarebbe importante che ognuno di noi avesse a sua disposizione delle strategie di rilassamento efficaci. Le tecniche di rilassamento possono aiutare a lavorare sul corpo per favorire uno stato di benessere attenuando sintomi sia di origine somatica che fisica. In generale possono aiutare la persona a gestire meglio quelle situazioni di vita quotidiana che sono altamente stressanti.

Il Rilassamento Muscolare Progressivo

Come modello di riferimento prendiamo il Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson. Tale tecnica è stata elaborata dalla statunitense attorno agli anni 30 e, a differenza di altre tecniche, ha escluso quasi totalmente la parte psicologica del rilassamento, concentrandosi solo ed esclusivamente sull’aspetto neuromuscolare. Da un punto di vista clinico, Jacobson ha elaborato un training che permette di imparare a rilassarsi senza controindicazioni ed è di larga applicazione. Lo stress induce tensione muscolare e mentale e anche da questo derivano malattie psichiche e fisiche. Ridurre la tensione muscolare potrebbe divenire un antidoto per la prevenzione.

Jacobson si interessa alla tensione muscolare sotto il punto di vista neurofisiologico e le sue prime ricerche hanno come protagonista il sussulto: il sussulto in una persona è facilitato da uno stato di tensione, questo infatti non avviene quando il soggetto è disteso. Egli dimostrò come i processi mentali, le emozioni, etc., sono associate a movimenti neuromuscolari che alterano il normale tono di riposo.

Focus sul corpo

Prima sono stati chiamati in causa i pensieri. Nel training viene data molta importanza a questi che non vengono contrastati ma solo assecondati, ma la concentrazione è sull’ascolto del corpo, una concentrazione sensoriale e non su pensieri o altri elementi ambientali.

Il programma di rilassamento segue il principio di gradualità, ovvero ogni step del training e del processo di generalizzazione avviene gradualmente e per fasce muscolari, tenendo ovviamente in considerazione le abilità acquisite (senso muscolare) e delle caratteristiche soggettive.

La generalizzazione è la metodologia secondo la quale si applica la tecnica del rilassamento alla vita quotidiana al fine di gestire gli eventi stressanti, stress soggettivi e/o ambientali, che creano uno stato di ansia. Tendenzialmente le persone che hanno appreso tale tecnica di rilassamento dicono di riuscire ad applicarlo anche in contesti di vita quotidiana: in ufficio; mentre aspettano l’autobus; seduti sulla sedia. Viene proposto anche ai bambini che possono applicarlo anche in classe stringendo una pallina di gomma. Per chi insegna tale tecnica diviene obiettivo prioritario quello di saper portare il paziente in una condizione di ascolto del proprio corpo. Per concludere, lavorare sul corpo può essere una risorsa straordinaria nella gestione dello stress.

Costellazioni Familiari

Le Costellazioni Familiari sono un metodo di presa di coscienza e risoluzione di una vasta gamma di problematiche che derivano dalla famiglia di origine. Queste possono manifestarsi nella vita di ogni giorno sul piano del benessere individuale, delle relazioni interpersonali, del processo di auto-realizzazione.

Attraverso le Costellazioni Familiari possiamo infatti prendere coscienza di ingiustizie, esclusioni e privazioni vissute dai nostri antenati. Queste memorie dolorose potrebbero essere arrivate fino a noi e inficiare in qualche misura la nostra vita. Lasciando agire la rappresentazione scenica, possiamo comprendere a fondo l’origine di ciò che stiamo vivendo, reintegrare le informazioni mancanti per rimettere ordine nel sistema.

Risolvere nodi antichi

Il metodo delle Costellazioni Familiari aiuta a ricostruire la propria linea genealogica. Inoltre consente di prendere coscienza di traumi (malattie, guerra, morti, fallimenti), ingiustizie e privazioni vissuti nel sistema familiare, sociale e culturale. Tutte queste informazioni vengono infatti trasmesse dagli antenati ai discendenti.

Non è cosa semplice: molto spesso quello che viene rappresentato nelle costellazioni è uno scenario sconosciuto e inedito. E non potrebbe essere altrimenti, in quanto la costellazione ci mostra non solo quello che già sappiamo (per cui riconosciamo con stupore certi atteggiamenti e comportamenti riportati precisamente dai rappresentanti); il vero contributo di una costellazione consiste nello svelarci quello che non sappiamo riguardo la nostra famiglia.

La cosa importante è aprirsi alle informazioni che arrivano, accogliere con fiducia anche le rivelazioni più sconcertanti. Talvolta capita che la costellazione riveli addirittura informazioni sconosciute al cliente, ma puntualmente confermate da successive indagini. In ogni caso, qualunque cosa emerga dalla costellazione, il nostro livello di coscienza è in grado di elaborarlo e di assimilarlo, aumentando la nostra consapevolezza e permettendo così al nostro campo morfogenetico di riassestarsi più in profondità.

Come funzionano le Costellazioni Familiari

Gli elementi fondamentali per effettuare una Costellazione Familiare sono tre: un facilitatore, un cliente e dei rappresentanti.

  • Il FACILITATORE imposta il set fenomenologico in cui si sviluppa la costellazione, indaga assieme al cliente la tematica che si vuole esplorare e, sulla scorta della sua esperienza e competenza, porta la costellazione a una soluzione efficace.

  • Il CLIENTE è l’elemento fondamentale di una costellazione. E’ colui che porta la domanda su cui lavorare, che deve essere chiara e rilevante, ovvero non generica ed evasiva, bensì focalizzata su una tematica che richieda una soluzione. Ma soprattutto il cliente è importante perché è il suo campo morfogenetico che viene rappresentato fenomenologicamente, a cui si collegano il facilitatore e i rappresentanti.

  • I RAPPRESENTANTI sono generalmente persone (ma possono essere anche oggetti) su cui vengono proiettati dal campo morfogenetico taluni aspetti dei membri del sistema familiare. In genere (ma dipende dalla tecnica utilizzata dal facilitatore) possono esprimersi liberamente e spontaneamente, dando uno sviluppo dinamico alla costellazione.

Concretamente, dopo una breve indagine sulla tematica portata dal cliente e sulla situazione genealogica e sistemica, il cliente formula la domanda cui tenterà di dare risposta grazie alla costellazione. Il cliente dispone nello spazio previsto (o invita a disporsi liberamente) i rappresentanti della sua famiglia, o del suo partner, o delle sue relazioni affettive, lavorative, personali. Poi si siede e osserva.

I rappresentanti entrano in connessione con il campo morfico del soggetto e agiscono guidati da dinamiche spontanee, portando alla luce il vissuto emotivo delle persone reali o delle situazioni che rappresentano. In genere, nel giro di qualche minuto la costellazione arriva a uno stallo, a un blocco o un congelamento: è il cosiddetto irretimento, in cui vediamo la situazione “reale” del sistema familiare del soggetto, assistiamo all’emersione del nodo o del nucleo problematico del sistema.

Solamente la visione e la presa di coscienza di questo dato potrebbe bastare al cliente per destrutturare una serie di blocchi interiori e giungere a nuove consapevolezze riguardo se stesso e il proprio sistema; ma in genere si cerca di effettuare un aggiustamento della situazione, di esercitare un ruolo attivo nella ridefinizione del sistema.

Attraverso quindi un misurato e graduale cambiamento delle posizioni dei rappresentanti nello spazio, spontaneamente o attraverso l’intervento del facilitatore, si riporta il sistema nel giusto ordine: una rinnovata armonia dentro la quale il soggetto interessato riprende il suo posto e ristabilisce le corrette relazioni con i membri del suo sistema.

Attacchi di panico: sintomi, cause e trattamento

Cos’è un attacco di panico. 

Il Disturbo da attacco di Panico è uno dei disturbi più comuni ed è una delle patologie su cui si è più discusso negli ultimi anni. Si tratta di un disturbo che può comportare anche gravi disagi personali, lavorativi e sociali e ha una rilevante diffusione e l’età di esordio del disturbo di panico si colloca tra l’adolescenza ed i 30/35 anni. Nonostante le manifestazioni cliniche del disturbo siano simili nei due sessi, le donne hanno una maggiore probabilità di sviluppare il disturbo rispetto agli uomini, infatti viene diagnosticato con una frequenza doppia nelle donne (Apa, 2013).

Inoltre, sono frequenti le ripercussioni negative sulla qualità della vita, quali abuso di alcool, droghe o farmaci, e problemi economici, familiari e relazionali. Il primo attacco di panico si può verificare per diverse ragioni, ma possiamo vedere dalla storia dei pazienti che molto spesso coincide con un periodo di tensione o di stress elevati.

I fattori di rischio.

Sono considerati fattori di rischio:

  1.  eventi stressanti incentrati sulla separazione (per es. lasciare la casa dei genitori per andare a vivere da soli, lasciare la famiglia per lunghi periodi per ragioni di lavoro o altro, divorziare);
  2.  instabilità della famiglia originaria che determina insicurezza sotto forma di sensazione di non essere equipaggiati per affrontare adeguatamente i pericoli della vita;
  3.  familiarità: molti studi dimostrano che se l’età di esordio del disturbo di panico è inferiore ai 20 anni, i parenti di primo grado hanno una probabilità venti volte maggiore di sviluppare lo stesso disturbo;
  4.  fattori stressanti esterni quali la malattia o la morte di una persona cara, la presenza di malattie in famiglia, la propria malattia, problemi relazionali con il coniuge o i parenti, problemi finanziari, perdita o pressioni sul lavoro, eventi incontrollabili e/o imprevedibili, ecc.;
  5.  fattori stressanti interni che sono rappresentati dal modo in cui siamo abituati ad affrontare un problema, dal nostro modo di pensare.

La sintomatologia.

Il DSM-V definisce tale disturbo come segue:

“Un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano quattro o più dei seguenti sintomi:

  • Palpitazioni, tachicardia;
  • Sudorazione;
  • Tremori fini o grandi scosse;
  • Dispnea o sensazioni di soffocamento;
  • dolore o fastidio al petto;
  • Nausea o dolori addominali;
  • Parestesie;
  • Brividi o vampate;
  • Paura di impazzire o morire;
  • Sensazione di vertigine o instabilità;
  • Derealizzazione o depersonalizzazione.

La maggior parte degli individui ha episodi di panico occasionali in cui la causa della paura è evidente, ad esempio la minaccia di un incidente stradale. Anche le crisi di panico prevedibili sono angosciose, mentre quelle inaspettate possono essere particolarmente sconcertanti e preoccupanti. La frequenza e l’intensità degli attacchi di panico sono mutevoli; posso essere moderatamente frequenti, ad esempio verificarsi una a settimana manifestandosi regolarmente per mesi, posso essere più brevi ma più frequenti e comparire tutti i giorni, ancora, possono trascorrere periodi senza attacchi o con episodi meno frequenti.

Le crisi di panico improvvise durano tendenzialmente tra i 10 ed i 20 minuti dove l’individuo prova angoscia e, subito dopo, può provare debolezza rimanendo in uno stato di ansia. Il soggetto percepisce questo lasso di tempo come interminabile, dove i normali processi di ragionamento sono compromessi. Il panico è un episodio in cui il soggetto esperisce un’intensa paura che è accompagnata da sensazioni corporee e mentali spiacevoli, difficoltà di ragionamento (es: “la mia mente si svuota”) e una sensazione di catastrofe imminente e improvvisa (es: segno di morte o di pazzia). Ad esempio, il soggetto può avere un attacco se interpreta la confusione mentale come il segnale di un impazzimento o qualche secondo di tachicardia come il segno di un infarto in corso. Generalmente la paura di morire, di perdere conoscenza, di comportarsi in modo strano e/o urlare, di perdere il controllo o di impazzire sono piuttosto comuni nei soggetti a cui viene diagnosticata un DAP.

Comportamenti conseguenti.

Solitamente, nel momento in cui si verifica un secondo episodio, il soggetto inizia a temere che si verificheranno altri episodi divenendo ansioso e apprensivo e sviluppando un modello di comportamento evitante. In questo caso il soggetto potrebbe cominciare a temere il panico stesso e iniziare ad avere “paura della paura”. Infatti, ripetuti attacchi di panico possono portare ad una limitata mobilità in cui, il soggetto, tende ad evitare le situazioni in cui potrebbe presentarsi un attacco ed in cui è difficile attuare una fuga. Di conseguenza, pianificano un itinerario, il momento in cui farlo e le varie possibilità di fuga.

In casi gravi, la lista dei luoghi da evitare si allunga progressivamente; ogni nuovo episodio di panico incrementa la lista di un altro ambiente pericoloso e, in casi estremi, la persona finisce con il recludersi in casa. I soggetti che hanno crisi di panico sono bisognosi di una presenza rassicurante, di una persona fidata che può intervenire qualora ne avessero bisogno. Durante la crisi il soggetto si sente come in trappola e il suo pensiero principale è quello di scappare, e ciò può portare l’individuo a mettere in atto un comportamento rischioso, come guidare ad alta velocità o uscire da un edificio precipitosamente.

Un altro possibile effetto è la permanenza in un sistematico stato di allerta, dove l’attenzione, l’immaginazione, la memoria e la memorizzazione avranno caratteristiche di selettività per sensazioni ed informazioni attinenti la possibilità di perdere il controllo e dunque vi sarà una maggiore disponibilità di informazioni di pericolo. Tale stato di allarme favorirà inoltre la comparsa dell’ansia anticipatoria che, come è noto, facilita l’insorgenza del panico.

Il trattamento.

Per quanto riguarda l’effetto dell’ansia sul comportamento, è molto frequente che si vada a strutturare tutta una serie di comportamenti protettivi e di ricerca di sicurezza. Tali comportamenti potrebbero prevenire esperienze disconfermanti la pericolosità della minaccia immaginata e che talvolta contribuiscono a peggiorare i sintomi temuti rendendo più probabile l’attacco; nel caso del ricorso all’iperventilazione, ad esempio, può aumentare la sensazione di soffocamento.  E’ da sottolineare l’importanza dei fattori relazionali sul mantenimento del disturbo: la coppia di un paziente con disturbo di panico si riduce talvolta ad una relazione di tipo diadico in cui il disturbo dell’uno è strumentale alla necessità di controllo e di vicinanza dell’altro partner.

Esistono dei protocolli di trattamento psicoterapico per il disturbo di attacchi di panico i quali sottolineano tutti l’importanza di una corretta ristrutturazione delle credenze e valutazioni del problema; si interviene quindi anche con una buona psicoeducazione. Fra le opzioni, la terapia cognitivo comportamentale utilizza tecniche che possono essere impiegate durante il trattamento: l’esposizione enterocettiva, l’esposizione in vivo, l’utilizzo della flash card e la tecnica del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Cervelli in movimento: una tempesta costruttiva

Risorse umane, una tempesta costruttiva

All’interno di un gruppo di lavoro, quale che sia la sua dimensione, dall’azienda al piccolo gruppo con un obiettivo specifico, possiamo assistere a fenomeni di tensione, nervosismo e apprensione. Questi stati d’animo negativi portano, nel migliore dei casi, a un abbassamento della soglia della motivazione che conduce il lavoratore a rendere di meno o con standard qualitativi inferiori rispetto al solito. Da parte nostra, cosa possiamo fare? Quali sono le parole più giuste? Quali azioni sono le più idonee per fronteggiare situazioni “sfavorevoli”? Oltre a concentrare l’attenzione sul budget, sul target, sui bilanci o sui resoconti, perché non sfruttare la risorsa più importante che abbiamo?

La forza creativa del gruppo

Parliamo della risorsa umana, i nostri collaboratori. Coinvolgerli, farli sentire parte integrante, risorsa di inestimabile valore. Quando eravamo bambini i giochi in gruppo erano quelli più divertenti, quelli fatti con i nostri compagni di scuola erano i più fantasiosi,  i giochi inventati con fratelli o cugini erano quelli più geniali. Non a caso i lavori di gruppo presentati a scuola erano i più colorati e pregni di informazioni! Ecco, tornando indietro nel tempo, tutto questo può essere riadattato alla realtà del lavoro in gruppo e può esserci molto utile. Riprendendo, solo per uno spunto, la scuola della Gestalt (la psicologia della Gestalt, detta anche psicologia della forma, è una corrente psicologica riguardante la percezione e l’esperienza che nacque e si sviluppò agli inizi del XX secolo in Germania) la quale sostiene che “L’insieme è più della somma delle sue parti” e tenendo vivido il ricordo dei giochi in comitiva, ecco che l’immagine che ci viene in mente è nitida e concreta: il gruppo.

Quando siamo di fronte ad un problema le cui soluzioni non bastano, non sono innovative, originali; quando abbiamo bisogno di nuovi spunti, nuove prospettive o nuovi progetti ma nulla ci viene in soccorso, cosa possiamo fare? Mettiamo insieme un gruppo di collaboratori, diamogli uno spunto, e giochiamo insieme …. il risultato sarà sorprendente! Mi riferisco alla tecnica del brainstorming, letteralmente una tempesta di idee, una tecnica dove vince la creatività di gruppo e che stimola l’emergere di nuove idee che portano alla soluzione di un problema.

Il metodo del brainstorming

Il metodo del brainstorming iniziò a diffondersi nel 1957, mediante il libro di A. F. Osborn “Applied Imagination” . La tecnica del brainstorming ha molte applicazioni pratiche, nella pubblicità, nell’arte, nello sviluppo di nuovi prodotti, ma anche nella creazione e gestione di progetti e processi. E’ una tecnica largamente utilizzata in numerose realtà aziendali. Consiste in una discussione di gruppo guidata da un animatore che ha il compito di far venire a galla il più alto numero di idee sull’argomento proposto. Idee di ogni tipo, le più assurde, bizzarre, eccentriche e stravaganti. Durante tutta la seduta ogni idea è accolta e ascoltata e solo al termine di tale sessione vengono fatte critiche e scremate le idee emerse. Alcune ricerche hanno dimostrato che evitare il giudizio immediato è altamente produttivo sia per il singolo che per l’interazione di gruppo. Nelle sedute di brainstorming possiamo rintracciare tre momenti fondamentali tra le quali la definizione del problema, e quindi capire dove c’è bisogno di un intervento  di tipo creativo, la produzione delle idee nuove, e la decisione e scrematura delle idee. E’ fondamentale tenere presente che l’animatore ricopre un ruolo chiave poiché deve  avere padronanza del problema proposto, soprattutto in merito ai limiti e ai punti dove si può osare maggiormente. Il gruppo dei partecipanti può essere eterogeneo per specializzazione, ruolo, mansione o cultura. Nella sessione è d’obbligo l’espressione libera di tutte le idee e  la censura di ogni tipo di ironia o critica. L’ideatore stesso sostiene che tale tecnica può essere dieci volte più produttiva rispetto a riunioni definite convenzionali.

Nonostante il brainstorming sia stato sottoposto a critiche, è comunque la tecnica più utilizzata che, grazie ai suoi limiti e ai suoi punti di forza, ha aperto la strada a numerose tecniche basate sulla creatività.  Ritornando a noi, perché non “sfruttare” le risorse umane che abbiamo in campo? Magari in un giorno in cui le idee vengono meno, dove il problema sembra insormontabile e l’inventiva non ci aiuta. Magari in un periodo come questo, dove numeri, segni meno e conti in rosso schiacciano ogni nostra fantasia. Forse proprio il silenzioso collaboratore del reparto qualità, il ragazzo della logistica o l’apprendista del recupero crediti possono avere in serbo una potenziale idea che, adeguatamente strutturata e organizzata, può essere per il nostro gruppo di lavoro un punto a favore.