Invecchiamento fisiologico e invecchiamento patologico

L’invecchiamento fisiologico nella popolazione è aumentato, dai primi anni del ‘900 ad oggi, in conseguenza della crescita dell’aspettativa di sopravvivenza, grazie al miglioramento generale nelle condizioni di vita. Ciò significa che le tematiche legate alla terza età oggi interessano un ampio numero di persone.

invecchiamento fisiologico e invecchiamento patologico

È diventato, quindi, estremamente importante approfondire la ricerca e la clinica al fine di comprendere cosa favorisce un invecchiamento “di successo” e come è possibile mantenere il più a lungo possibile attività e funzioni fondamentali alla persona per vivere in autonomia.

Noi del Centro Psicologia Monterotondo abbracciamo la visione secondo la quale lo sviluppo della persona continua lungo tutto l’arco di vita: dall’infanzia, all’adolescenza, all’età adulta, all’età anziana. Ogni fase porta in sé un passaggio di crescita fondamentale per uno sviluppo pieno e sano dell’individuo.

Le ultime ricerche sul benessere psicologico riportano che le persone più adulte esprimono un maggior grado di soddisfazione personale e di benessere psichico rispetto alle persone più giovani. Questo potrebbe sembrare un dato paradossale, eppure ci permette di comprendere che, anche in età avanzata, ciascuno può avere un ruolo attivo nella costruzione del proprio benessere.

Un buon invecchiamento fisiologico è possibile

Quali sono i fattori che favoriscono una migliore qualità di vita e salute in età avanzata? Tutti i dati più recenti convergono su alcune concause principali che possono favorire un buon invecchiamento fisiologico. Queste comprendono comportamenti e stili di vita, fattori psicologici e sociali. Tra i più rilevanti, legati allo stile di vita, possiamo citare:

  • una dieta bilanciata

  • esercizio fisico costante, con effetto positivo anche sull’umore

  • ore di sonno adeguate (7-8)

  • l’astensione dal fumo

  • un consumo moderato di alcool

  • attività di prevenzione regolare.

Per quanto riguarda i fattori psicologici e sociali, tra i più influenti abbiamo:

  • avere un atteggiamento positivo nei confronti della vita e dell’invecchiamento stesso

  • concedersi tempo dedicato agli hobby e ai divertimenti

  • mantenere relazioni sociali

  • avere un ruolo attivo nella società e nella propria comunità.

Quindi, dare attenzione al nostro stile di vita fin da giovani, tanto per le abitudini comportamentali, quanto per l’aspetto psicologico e sociale, ci permette di costruire potenzialità e risorse alle quali poter attingere nella terza età.

L’invecchiamento fisiologico comporta inevitabilmente dei cambiamenti fisici esterni e interni, cambiamenti a livello sensoriale, un declino più o meno marcato di diverse funzioni neuropsicologiche tra cui la memoria, il linguaggio e l’attenzione. Tali modificazioni possono essere a volte minime e molto lente, altre volte più profonde e progressive.

Come fronteggiare in modo attivo i cambiamenti propri della terza età?

Di fronte a queste modificazioni, come esseri umani lo strumento più potente che abbiamo a disposizione è la nostra capacità di adattamento. Saper modificare in modo flessibile i nostri obiettivi in base ai cambiamenti delle risorse a nostra disposizione. Questa è una qualità estremamente utile in tutto l’arco della vita, ma diventa fondamentale nella terza età, quando possono ridursi sia le potenzialità interne che la capacità di accedere alle risorse esterne.

Per quanto riguarda queste ultime, è utile ad esempio modificare il contesto ambientale in cui l’anziano vive, in modo da renderlo più funzionale alle sue capacità fisiche e cognitive, o anche utilizzare semplici accorgimenti per minimizzare o compensare il declino cognitivo (dallo scrivere dei promemoria ad utilizzare telefoni o tablet per ricordarsi appuntamenti).

Da un punto di vista psicologico è importante che anche nella terza età ci sia una progettualità, ossia la ricerca di uno o più obiettivi che diano direzione e senso alla propria vita. In genere chi invecchia in modo sano e felice tende a selezionare un minor numero di obiettivi, ma solitamente questi sono più importanti e significativi per la persona.

Inoltre la sfera emotiva e affettiva nella terza età è quella che subisce meno l’effetto dell’invecchiamento fisiologico, per cui rimane una grossa risorsa a disposizione. Questo permette anche di potenziare la sfera familiare e sociale come spazio di condivisione di esperienze, emozioni e sentimenti.

Accanto all’invecchiamento fisiologico, tuttavia non possiamo non considerare che in alcuni casi l’invecchiamento diventa patologico. Ciò accade quando il declino delle funzioni neuropsicologiche è marcato e tale da compromettere il buon funzionamento psicologico e sociale della persona, come nei casi delle Demenza.

L’invecchiamento patologico

Negli ultimi anni il tema è al centro dell’attenzione a livello mondiale poiché, con l’innalzamento dell’età della popolazione, si assiste a un aumento dei casi di Demenza. Le Demenze degenerative primarie sono malattie devastanti del sistema nervoso centrale, in cui la personalità e l’identità della persona vengono progressivamente distrutte.

Secondo il Rapporto OMS e ADI (Alzheimers Disease International) del 2016 la Demenza, nelle sue diversificate forme, è stata definita “una priorità mondiale di salute pubblica”. Le stime più recenti a livello internazionale indicano che nel mondo vi sono circa 35,6 milioni di persone affette da Demenza, con 7,7 milioni di nuovi casi ogni anno e un nuovo caso di Demenza diagnosticato ogni 4 secondi.

Secondo i dati dell’Osservatorio Demenze dell’Itituto Superiore di Sanità (studio di giugno 2019) in Italia un milione di persone sono affette da Demenza, 600mila sono colpite da Alzheimer e circa 3 milioni sono le persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei loro cari. La Malattia di Alzheimer rappresenta la più frequente patologia neuro-degenerativa, insieme ad altre forme di Demenza come Demenza vascolare, fronto-temporale, a corpi di Lewy, ecc…

La Demenza di Alzheimer si manifesta in una fase iniziale con lievi problemi di memoria; nel corso della malattia questi e altri deficit cognitivi si intensificano e possono portare il paziente non solo al grave disorientamento nel tempo, nello spazio e verso le persone, ma anche a disinteressarsi della propria sicurezza personale, dell’igiene e della nutrizione, sino alla totale perdita della propria autonomia e alla completa dipendenza dai familiari o altri caregiver (colui che si prende cura del malato).

Demenza senile, come comportarsi

La prevalenza della malattia aumenta con l’età e raggiunge il 15-20% nei soggetti di oltre 80 anni. La sopravvivenza media dopo la diagnosi è oramai di oltre 10 anni. Ad oggi non esiste una cura efficace per la Demenza, che modifichi la malattia e ne inverta il decorso, sebbene le attuali terapie farmacologiche siano efficaci nel rallentare la progressione di malattia.

Negli ultimi anni l’approccio più frequente di cura è un intervento farmacologico precocissimo sulle prime fasi della malattia (in cui i sintomi sono minimi) unito a terapie non farmacologiche. Queste comprendono approcci cognitivi quali la Terapia di Stimolazione Cognitiva (CST) abbinata con altri interventi psicosociali, come la terapia occupazionale, la musicoterapia, la stimolazione multisensoriale, terapia della bambola, terapia del treno, l’esercizio fisico.

La Stimolazione Cognitiva è un trattamento specifico per soggetti che presentano una demenza lieve-moderata. Usa tecniche e interventi mirati e differenziati. L’obiettivo è massimizzare le funzioni residue dell’individuo con l’utilizzo di tutte le risorse interne ed esterne disponibili per mantenere il più possibile l’autonomia.

La terapia di ri-orientamento alla realtà (ROT) è stata la prima terapia cognitiva in grado di produrre buoni risultati, di rafforzare le informazioni di base del paziente a livello spazio-temporale e della sua storia personale e ridurre la tendenza all’isolamento.

La Terapia di Stimolazione Cognitiva (CST)

La Terapia di Stimolazione Cognitiva è un intervento globale: parte da un orientamento alla realtà è capace di stimolare il funzionamento cognitivo e socio-relazionale. Il trattamento pone al centro l’individuo piuttosto che la Demenza. È una terapia psicosociale diffusa a livello mondiale, comprovata a livello scientifico. Può rallentare il decorso della malattia puntando all’autonomia della persona.

Gli obiettivi terapeutici nello specifico sono:

  • raggiungere il miglior livello funzionale possibile
  • rallentare il decadimento cognitivo
  • contrastare la tendenza all’isolamento nel contesto familiare e sociale
  • contenere i disturbi comportamentali
  • ridurre lo stress assistenziale
  • ritardare l’istituzionalizzazione.

La CST è un’attività altamente strutturata, da non confondere con qualsiasi tipo di proposta ludico-ricreativa e può essere condotta individualmente o in piccoli gruppi. Ogni sessione segue la stessa struttura sebbene il tema cambi di volta in volta, permettendo alla persona di acquisire un orientamento implicito. La stimolazione delle abilità cognitive avviene attraverso attività non frustranti e adattate alle capacità della persona o del gruppo, ad esempio:

  • esercizi con le parole per stimolare le abilità di denominazione e di comprensione
  • giochi con i numeri
  • esercizi sulla conoscenza e uso degli oggetti
  • giochi fisici
  • orientamento sulla base di indizi esterni
  • utilizzo del denaro
  • stimolazione sensoriale
  • attività con la musica e suoni
  • attività sull’infanzia.

L’Operatore di Stimolazione Cognitiva della persona con Demenza

L’Operatore di Stimolazione Cognitiva è un professionista (Psicologo, Neurologo, Geriatra o comunque ogni Operatore coinvolto nell’assistenza a tale patologia), adeguatamente formato. Egli è in grado di disporre delle tecniche di stimolazione cognitiva e di attuare l’intervento più efficace per il benessere del suo assistito. Nello specifico

  • conosce e sa somministrare le principali batterie di screening del funzionamento cognitivo per la Demenza
  • è in grado di effettuare una valida diagnosi differenziale tra i diversi disturbi
  • conosce e sa applicare le principali tecniche di stimolazione cognitiva (ROT; CST individuale e di gruppo).

Presso il Centro Psicologia Monterotondo operano esperti in grado di valutare, attraverso test specifici, le funzioni cognitive e i sintomi non cognitivi. L’obiettivo è quello di fornire una valutazione dello stato funzionale completo della persona con Demenza. I nostri specialisti, dopo un attento screening, programmano il trattamento più adeguato per la persona in esame. Anche alla famiglia del malato con Demenza e alle persone che lo assistono è offerto aiuto e strumenti che supportino gli interventi domiciliari.

Sabato 21 marzo dedicheremo un seminario gratuito al tema Conoscere e Prevenire Le Demenze. La partecipazione è libera ma è necessario prenotarsi inviando una mail a info@centropsicologiamonterotondo.com oppure chiamando il numero 366/1730510. 

Un disturbo diffuso: l’attacco di panico

Un attacco di panico è un episodio in cui un soggetto esperisce un’intensa paura, accompagnata da sensazioni corporee e mentali spiacevoli, difficoltà di ragionamento e un senso di catastrofe imminente. La paura di morire, di perdere conoscenza, di comportarsi in modo strano e/o urlare, di perdere il controllo o di impazzire sono comuni nei soggetti cui viene diagnosticato il disturbo attacco di panico (DAP).

Quando può verificarsi un attacco di panico

Il Disturbo di Panico è una patologia molto discussa e comune, che abbiamo già affrontato in modo approfondito in un articolo del maggio scorso. Viene diagnosticato con una frequenza doppia nelle donne rispetto agli uomini (Apa, 2013) ma i sintomi sono simili nei due sessi.

Il primo attacco di panico si verifica tra l’adolescenza ed i 30/35 anni, spesso in coincidenza con un periodo di forte stress o di situazioni quali: a) instabilità della famiglia originaria che determina insicurezza sotto forma di sensazione di non essere in grado di affrontare i pericoli della vita; b) eventi incentrati sulla separazione come il divorzio, l’allontanamento dalla famiglia per ragioni di lavoro o altro; c) fattori stressanti esterni: malattia o morte di una persona cara, una malattia, problemi relazionali, problemi finanziari, perdita o pressioni sul lavoro, eventi imprevedibili, ecc.; d) fattori stressanti interni cioè il nostro modo di pensare, di gestire un problema, ecc.; e) familiarità: studi dimostrano che se l’età di esordio del disturbo di panico è inferiore ai 20 anni, i parenti di primo grado hanno una probabilità venti volte maggiore di sviluppare lo stesso disturbo.

Come può manifestarsi un attacco di panico

Intensità e frequenza dell’attacco di panico sono variabili. Ad esempio possono avere luogo una volta a settimana manifestandosi regolarmente per mesi, o possono essere più brevi ma comparire tutti i giorni; ancora, possono trascorrere lunghi periodi senza attacchi o con episodi meno frequenti. Le crisi di panico improvvise durano tendenzialmente tra i 10 ed i 20 minuti dove l’individuo prova angoscia e, subito dopo, può provare debolezza rimanendo in uno stato di ansia.

Spesso, al verificarsi del secondo episodio, il soggetto inizia a temere che si verificheranno altri episodi divenendo ansioso e apprensivo e sviluppando un modello di comportamento evitante. Il soggetto tende ad evitare le situazioni in cui potrebbe presentarsi un attacco ed in cui è difficile attuare una fuga. Ogni nuovo episodio di panico incrementa la lista di un altro ambiente pericoloso e, in casi estremi, la persona finisce con il chiudersi in casa.

La persona può esperire stati di ansia anticipatoria che, come è noto, facilita l’insorgenza del panico. I soggetti che hanno crisi di panico sono bisognosi di una presenza rassicurante, di una persona fidata che intervenga qualora ne avessero bisogno. Va evidenziata l’importanza dei fattori relazionali sul mantenimento del disturbo: la coppia di un paziente con disturbo di panico si riduce talvolta a una relazione in cui il disturbo dell’uno è strumentale alla necessità di controllo e di vicinanza dell’altro.

Come trattare un attacco di panico

I protocolli di trattamento psicoterapico per il disturbo di attacchi di panico sottolineano l’importanza di una ristrutturazione delle credenze e valutazioni del problema; si interviene quindi anche con una buona psicoeducazione. Fra le opzioni, la terapia cognitivo comportamentale utilizza tecniche che possono essere impiegate durante il trattamento: l’esposizione enterocettiva, l’esposizione in vivo, l’utilizzo della flash card e la tecnica del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Durante il seminario che si terrà il 12 Gennaio 2019 presso il Centro Psicologia Monterotondo, avremo modo di parlare insieme dell’ansia e degli attacchi di panico ma soprattutto avremo modo, insieme, di sperimentare una prima seduta della tecnica del Rilassamento Muscolare Progressivo. Consideriamo come punto di partenza il fatto che il corpo sia entrato a far parte della pratica della psicoterapia. Ciò indica che il nostro corpo è fonte inesauribile di microscopici segnali che, se ascoltati e accolti, possono divenire un potenziale considerevole per la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti e dei nostri punti di forza.

Soma e psiche seguono il principio dei vasi comunicanti, dunque le conseguenze di una scorretta interpretazione delle emozioni e delle sensazioni si riversa sul nostro fisico. Quando la nostra intimità è, per così dire, bloccata, i nostri muscoli diventano tesi, contratti e la respirazione è superficiale e ridotta al minimo. Naturalmente questa situazione di blocco è tendenzialmente inconsapevole. Attraverso un lavoro di decontrazione dei muscoli e della respirazione, segnali, emozioni e sensazioni passano ad un livello di consapevolezza, divenendo così più ricettivi nei confronti di noi stessi.

Rilassamento Muscolare Progressivo: una presentazione gratuita sabato 12 gennaio presso il Centro Psicologia Monterotondo

Il rilassamento muscolare progressivo è una tecnica di rilassamento attivo basata sull’alternanza contrazione/distensione dei muscoli. L’origine è da rintracciarsi cinquanta anni fa, quando Jacobson ha pubblicato la prima edizione degli studi relativi alla tecnica di rilassamento. Il training è uno dei metodi più semplici ed efficaci per contrastare la condizione di stress e promuovere la propria salute psicofisica. Si basa sul presupposto che i processi mentali e le emozioni siano associati a manifestazioni neuromuscolari che alterano il normale tono di riposo.

Ogni pensiero, ogni percezione, ogni emozione si correla ad una modificazione del tono muscolare, coinvolgendo globalmente tutto il sistema nervoso, endocrino e muscolare. Attraverso il training di rilassamento muscolare possiamo imparare quali sono le tensioni presenti nel nostro corpo e che si riflettono nella nostra mente. Le fasi del training di rilassamento muscolare possono essere così elencate:

1) allenamento a percepire la tensione muscolare attraverso esercizi di contrazione e decontrazione;

2) addestramento a riconoscere quando i muscoli non sono completamente contratti o completamente distesi;

3) fare esperienza circa la condizione di mente passiva.

Due sono le finalità del training di rilassamento:

  1. indurre delle modificazioni sul sistema neurovegetativo attraverso esercizi di contrazione-decontrazione muscolare. Questo processo è sostenuto dalla tesi che la distensione muscolare induce quella mentale. L’esperienza di mostra che la distensione della muscolatura apporta una sensazione di calma. Quando si raggiunge lo stato di rilassamento si verificano effetti positivi anche a livello cardiorespiratorio. Di conseguenza la concentrazione di adrenalina nel sangue si abbassa e si produce uno stato di calma;

  2. altro obiettivo che si pone il training è quello della generalizzazione, ovvero l’autocontrollo e la gestione delle proprie tensioni in condizioni di vita quotidiana. Una volta appresi gli esercizi in un setting terapeutico, la persona è competente nel proporlo in qualsiasi circostanza. Questo avviene nel tempo, quando la persona diviene consapevole dei suoi stati. La generalizzazione non avviene per suggestione ma per impegno diretto del paziente.

Attacchi di panico: sintomi, cause e trattamento

Cos’è un attacco di panico. 

Il Disturbo da attacco di Panico è uno dei disturbi più comuni ed è una delle patologie su cui si è più discusso negli ultimi anni. Si tratta di un disturbo che può comportare anche gravi disagi personali, lavorativi e sociali e ha una rilevante diffusione e l’età di esordio del disturbo di panico si colloca tra l’adolescenza ed i 30/35 anni. Nonostante le manifestazioni cliniche del disturbo siano simili nei due sessi, le donne hanno una maggiore probabilità di sviluppare il disturbo rispetto agli uomini, infatti viene diagnosticato con una frequenza doppia nelle donne (Apa, 2013).

Inoltre, sono frequenti le ripercussioni negative sulla qualità della vita, quali abuso di alcool, droghe o farmaci, e problemi economici, familiari e relazionali. Il primo attacco di panico si può verificare per diverse ragioni, ma possiamo vedere dalla storia dei pazienti che molto spesso coincide con un periodo di tensione o di stress elevati.

I fattori di rischio.

Sono considerati fattori di rischio:

  1.  eventi stressanti incentrati sulla separazione (per es. lasciare la casa dei genitori per andare a vivere da soli, lasciare la famiglia per lunghi periodi per ragioni di lavoro o altro, divorziare);
  2.  instabilità della famiglia originaria che determina insicurezza sotto forma di sensazione di non essere equipaggiati per affrontare adeguatamente i pericoli della vita;
  3.  familiarità: molti studi dimostrano che se l’età di esordio del disturbo di panico è inferiore ai 20 anni, i parenti di primo grado hanno una probabilità venti volte maggiore di sviluppare lo stesso disturbo;
  4.  fattori stressanti esterni quali la malattia o la morte di una persona cara, la presenza di malattie in famiglia, la propria malattia, problemi relazionali con il coniuge o i parenti, problemi finanziari, perdita o pressioni sul lavoro, eventi incontrollabili e/o imprevedibili, ecc.;
  5.  fattori stressanti interni che sono rappresentati dal modo in cui siamo abituati ad affrontare un problema, dal nostro modo di pensare.

La sintomatologia.

Il DSM-V definisce tale disturbo come segue:

“Un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano quattro o più dei seguenti sintomi:

  • Palpitazioni, tachicardia;
  • Sudorazione;
  • Tremori fini o grandi scosse;
  • Dispnea o sensazioni di soffocamento;
  • dolore o fastidio al petto;
  • Nausea o dolori addominali;
  • Parestesie;
  • Brividi o vampate;
  • Paura di impazzire o morire;
  • Sensazione di vertigine o instabilità;
  • Derealizzazione o depersonalizzazione.

La maggior parte degli individui ha episodi di panico occasionali in cui la causa della paura è evidente, ad esempio la minaccia di un incidente stradale. Anche le crisi di panico prevedibili sono angosciose, mentre quelle inaspettate possono essere particolarmente sconcertanti e preoccupanti. La frequenza e l’intensità degli attacchi di panico sono mutevoli; posso essere moderatamente frequenti, ad esempio verificarsi una a settimana manifestandosi regolarmente per mesi, posso essere più brevi ma più frequenti e comparire tutti i giorni, ancora, possono trascorrere periodi senza attacchi o con episodi meno frequenti.

Le crisi di panico improvvise durano tendenzialmente tra i 10 ed i 20 minuti dove l’individuo prova angoscia e, subito dopo, può provare debolezza rimanendo in uno stato di ansia. Il soggetto percepisce questo lasso di tempo come interminabile, dove i normali processi di ragionamento sono compromessi. Il panico è un episodio in cui il soggetto esperisce un’intensa paura che è accompagnata da sensazioni corporee e mentali spiacevoli, difficoltà di ragionamento (es: “la mia mente si svuota”) e una sensazione di catastrofe imminente e improvvisa (es: segno di morte o di pazzia). Ad esempio, il soggetto può avere un attacco se interpreta la confusione mentale come il segnale di un impazzimento o qualche secondo di tachicardia come il segno di un infarto in corso. Generalmente la paura di morire, di perdere conoscenza, di comportarsi in modo strano e/o urlare, di perdere il controllo o di impazzire sono piuttosto comuni nei soggetti a cui viene diagnosticata un DAP.

Comportamenti conseguenti.

Solitamente, nel momento in cui si verifica un secondo episodio, il soggetto inizia a temere che si verificheranno altri episodi divenendo ansioso e apprensivo e sviluppando un modello di comportamento evitante. In questo caso il soggetto potrebbe cominciare a temere il panico stesso e iniziare ad avere “paura della paura”. Infatti, ripetuti attacchi di panico possono portare ad una limitata mobilità in cui, il soggetto, tende ad evitare le situazioni in cui potrebbe presentarsi un attacco ed in cui è difficile attuare una fuga. Di conseguenza, pianificano un itinerario, il momento in cui farlo e le varie possibilità di fuga.

In casi gravi, la lista dei luoghi da evitare si allunga progressivamente; ogni nuovo episodio di panico incrementa la lista di un altro ambiente pericoloso e, in casi estremi, la persona finisce con il recludersi in casa. I soggetti che hanno crisi di panico sono bisognosi di una presenza rassicurante, di una persona fidata che può intervenire qualora ne avessero bisogno. Durante la crisi il soggetto si sente come in trappola e il suo pensiero principale è quello di scappare, e ciò può portare l’individuo a mettere in atto un comportamento rischioso, come guidare ad alta velocità o uscire da un edificio precipitosamente.

Un altro possibile effetto è la permanenza in un sistematico stato di allerta, dove l’attenzione, l’immaginazione, la memoria e la memorizzazione avranno caratteristiche di selettività per sensazioni ed informazioni attinenti la possibilità di perdere il controllo e dunque vi sarà una maggiore disponibilità di informazioni di pericolo. Tale stato di allarme favorirà inoltre la comparsa dell’ansia anticipatoria che, come è noto, facilita l’insorgenza del panico.

Il trattamento.

Per quanto riguarda l’effetto dell’ansia sul comportamento, è molto frequente che si vada a strutturare tutta una serie di comportamenti protettivi e di ricerca di sicurezza. Tali comportamenti potrebbero prevenire esperienze disconfermanti la pericolosità della minaccia immaginata e che talvolta contribuiscono a peggiorare i sintomi temuti rendendo più probabile l’attacco; nel caso del ricorso all’iperventilazione, ad esempio, può aumentare la sensazione di soffocamento.  E’ da sottolineare l’importanza dei fattori relazionali sul mantenimento del disturbo: la coppia di un paziente con disturbo di panico si riduce talvolta ad una relazione di tipo diadico in cui il disturbo dell’uno è strumentale alla necessità di controllo e di vicinanza dell’altro partner.

Esistono dei protocolli di trattamento psicoterapico per il disturbo di attacchi di panico i quali sottolineano tutti l’importanza di una corretta ristrutturazione delle credenze e valutazioni del problema; si interviene quindi anche con una buona psicoeducazione. Fra le opzioni, la terapia cognitivo comportamentale utilizza tecniche che possono essere impiegate durante il trattamento: l’esposizione enterocettiva, l’esposizione in vivo, l’utilizzo della flash card e la tecnica del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.