La depressione post partum: tra normalità e patologia

Depressione dopo il partoLa depressione post partum (DPP) è una condizione clinica comune che viene spesso trascurata. Secondo un’indagine svolta nel 2008, la depressione post partum insorge nel 13% delle donne durante le prime settimane dopo il parto mentre il 14.5% ha un nuovo episodio depressivo maggiore o minore nei primi tre mesi postnatali ed il 20% delle neomamme sperimenta una depressione puerperale entro il primo anno dopo il parto. Esordisce generalmente dopo 3-4 settimane dal parto e la sintomatologia diventa ingravescente verso il 4-5 mese dopo la nascita).

Non esiste una classificazione diagnostica specifica per la depressione post partum. I sintomi sono identici ad una depressione maggiore non puerperale ma come momento di insorgenza hanno la circostanza del parto (Bobo, Yawn, 2015).

Depressione post partum: sintomi e insorgenza

Lo studio della Depressione post partum affonda le sue radici nel lontano 1838, quando lo psichiatra Esquirol descrive per la prima volta la “follia puerperale”, evidenziando il collegamento temporale con il parto come peculiarità di alcune forme depressive. Ad oggi il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) considera la depressione post-natale come una forma di depressione generale specificata come “depressione postpartum” se ha esordio entro le prime quattro settimane successive al parto. I criteri del DSM 5 per questo disturbo richiedono che siano presenti per un periodo di almeno due settimane: umore depresso come riportato dalla neomamma (per esempio si sente triste, vuota, disperata) o osservato da altri (per esempio appare lamentosa); marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte della giornata, quasi ogni giorno. Le donne possono presentare un’ideazione depressiva rispetto al proprio ruolo materno che si esprime con:

  • Percezione di esser incapaci di prendersi cura del figlio

  • Paura ed insicurezza nella gestione del bambino

  • Sentimenti ambivalenti o negativi verso il figlio

  • Percezione di isolamento dal contesto familiare.

La vulnerabilità legata alla gravidanza

La gravidanza non protegge la donna dallo sviluppo dei disturbi mentali al contrario, visti i processi psicologici coinvolti e il nuovo adattamento delle relazioni sociali, il periodo di gestazione rappresenta un momento di vulnerabilità sia per il ripresentarsi di precedenti patologie mentali sia per l’insorgenza nuovi disturbi (Picciau, Ottonello, Floris, Zonza, 2014).

Tra i principali fattori di rischio di depressione post partum in letteratura si riconoscono:

  • Storia psichiatrica pregressa

  • Precedente storia di psicopatologia in gravidanza o post partum

  • Familiarità per disturbi psichiatrici

  • Recenti eventi di vita stressanti (es.: lutti, malattie, aborti, violenza domestica)

  • Storia di abuso (fisico, sessuale, psicologico)

  • Relazione conflittuale con il partner

  • Mancanza di supporto familiare/sociale

  • Gravidanza non desiderata o non programmata

  • Vulnerabilità ormonale (es.: donne con storie di Sindrome Pre Mestruale SPM)

  • Patologia medica della madre (es.: disturbi tiroidei, diabete)

  • Complicanze fetali (es.: malformazioni primarie e/o secondarie)

  • Uso di sostanze psicoattive (stupefacenti, alcool, sostanze dopanti)

  • Giovane età

  • Nascita pre-termine, problemi di salute del bambino, temperamento difficile del bambino

  • Impossibilità di allattare

  • Difficoltà economiche

  • Essere primipare (Ossevatorio Nazionale sulla Salute della Donna, 2010).

È importante ricordare che una depressione post partum non curata tende a cronicizzare, diminuendo nella madre depressa la capacità di prendersi cura del neonato in modo adeguato e di sviluppare un’armonica relazione con il proprio figlio (Osservatorio Nazionale sulla salute della donna). Un adeguato interscambio madre-figlio sembra prevenire conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo del bambino (Istituto Superiore di Sanità, Marzo 2015). La DPP si manifesta indipendentemente dall’età e dal numero di figli delle pazienti.

Il vissuto contrasta con l’ideale sociale della maternità

Il periodo della gravidanza viene considerata una fase di passaggio nella vita della donna con peculiarità che non possono essere rintracciate in altri periodi della vita della stessa. La donna, infatti, è impegnata in un cambiamento che interessa la sfera biologica, psicologica e relazionale. Inoltre, la gravidanza, implica un percorso di maturazione che culmina con la definizione di un nuovo ruolo, quello materno. La nuova realtà alla quale va incontro la donna include:

  • Un nuovo ruolo e il cambiamento delle relazioni sociali;

  • Una diversa identità e un nuovo assetto della relazione di coppia;

  • Un confronto con la figura materna e l’acquisizione della funzione materna;

  • La perdita della fusione con il bambino e l’istaurare una relazione di dipendenza con il neonato.

La donna, in questa “nuova vita”, deve far fronte alle continue richieste del neonato, ad una nuova organizzazione del proprio tempo, riorganizzazione delle proprie abitudini ed eventuali difficoltà nell’ambito lavorativo. Per questo motivo, spesso, in molte culture, tra le quali quella occidentale, l’immagine idealizzata della maternità è in forte contrasto con il vissuto intimo della puerpera. Anche il contesto familiare e sociale in cui vive la donna possono essere di supporto o meno. Infatti, il legame con il partner può essere sollecitato da alcuni ostacoli dovuti al nuovo assetto di vita e l’uomo può essere avvertito dalla compagna come poco collaborativo rispetto alle nuove richieste della famiglia. Anche la mancanza di una rete sociale, avversità economiche o un parto inaspettatamente problematico, possono agevolare lo sviluppo di manifestazioni depressive.

 Un supporto che accompagni il cambiamento

Appare quindi fondamentale una tempestiva diagnosi che permetta di distinguere le neomamme che ottengono un esito positivo e soddisfano i criteri diagnostici per la depressione post partum (che necessitano di un trattamento immediato) dalle neomamme che stanno “riorganizzandosi” e che nel percorso di cambiamento possono avere degli episodi depressivi che vanno considerarti fisiologici. L’obiettivo primario, in ogni caso, è quello della remissione totale della depressione post partum sia per un miglioramento della salute psichica della madre che per il benessere del neonato. In generale, le decisioni circa il trattamento da adottare (psicoterapia piuttosto che antidepressivi) vengono prese in base alla gravità dei sintomi, alle preferenze della paziente, alla disponibilità di risorse locali circa i servizi di salute mentale e le scelte della paziente in merito all’allattamento al seno, qualora vi fosse la necessità di un intervento farmacologico.

Il linguaggio del corpo: quando vale più di mille parole

comunicazione non verbale Centro Psicologia Monterotondo

Quante parole diciamo durante tutto il corso della giornata? Quanto impegno mettiamo per far sì che il nostro interlocutore comprenda appieno ciò che vogliamo dire? Per questo elaboriamo frasi, pronunciamo parole ricercate, tecniche e quanto mai precise affinché il nostro pensiero sia espresso nel migliore dei modi possibili. Ma siamo sicuri che tutto ciò sia sufficiente? Siamo certi che il messaggio sia percepito esattamente per come vogliamo che lo sia? E’ bene tenere a mente che non è quello che diciamo, ma come lo diciamo che fa la differenza. E, sicuramente, la comunicazione verbale da sola non basta, deve essere necessariamente accompagnata da una comunicazione non verbale chiarificatrice e complementare.

La comunicazione non verbale è prevalente

Questi due tipi di comunicazione devono essere congrue tra loro per sortire effetti significativi. Facendo solo qualche accenno alla teoria, vediamo che la comunicazione non verbale è essenziale per capire chi abbiamo di fronte, per far comprendere noi stessi e per comunicare anche senza parlare! Ha un’importanza decisiva e strategica in tutte le relazioni interpersonali. Sembra paradossale, ma ogni minimo comportamento non verbale comunica qualcosa di noi, e, gestendolo nel miglior modo, può divenire un aiuto importante nelle relazioni sociali. E’ uno strumento che ognuno di noi ha a disposizione e ciò è avvalorato dal fatto che la CNV (comunicazione non verbale) costituisca il 93% di tutta la comunicazione e che il 91% della CNV sia inconsapevole. Perciò, una gran parte di quello che effettivamente comunichiamo è rappresentato da ciò che veicoliamo attraverso il linguaggio del corpo.

Impossibile non comunicare

Questo tipo di comunicazione è universalmente comprensibile, al punto da poter trascendere le barriere linguistiche (altre lingue), ma è bene sapere che ogni cultura tende a rielaborare in maniera differente i messaggi non verbali. Ciò vuol dire che forme di comunicazione non verbale perfettamente comprensibili per le persone appartenenti ad una determinata cultura possono invece essere, per chi ha un altro retaggio culturale, assolutamente incomprensibili o addirittura avere un significato opposto a quello che si intendeva trasmettere. C’è molto da dire su quest’argomento, sono stati scritti numerosi libri, tanti articoli e non pochi trattati e tutto è incline a sostenere che è impossibile non comunicare. Anche quando dormiamo, camminiamo, la postura che assumiamo, come posizioniamo i nostri piedi durante una conversazione, come stringiamo la mano in fase di presentazione o di saluto. Tutto è comunicazione.

Gesti, silenzi, sorrisi: potenziali strumenti di una comunicazione consapevole

Sia durante una riunione che in una normale conversazione, siamo tendenzialmente attenti ai gesti che interessano gli arti superiori, ma se vogliamo sapere qualcosa di più della persona che abbiamo di fronte, allora spostiamo lo sguardo sui suoi piedi o sulla posizione delle gambe.

Attenzione al tono della voce, alle pause ad anche ai silenzi! Potrebbe sembrare assurdo ma i silenzi sono un’arma a doppio taglio: possono servire per sottolineare l’importanza di un concetto appena espresso, oppure, se ben “utilizzati”, possono mettere a disagio il nostro interlocutore e farlo sentire in una posizione di inferiorità rispetto a noi. Quante volte, poi, siamo rimasti abbagliati da un sorriso fantastico oppure infastiditi da un’amica che con un sorriso ambiguo ci ha detto “ma che bei capelli”, le donne molto probabilmente ne sanno più degli uomini!

Il sorriso, questa meraviglia, questa manifestazione favolosa che riempie le nostre giornate, il nostro cuore e che, al solo ripensarci, ci strappa un altro sorriso come fosse una catena! Ma attenzione, è il sorriso di Duchenne quello schietto e sincero, dove tutti i muscoli facciali sono coinvolti, che arriccia gli occhi e gli angoli della bocca! Diffidate dal sorriso Pan American, quello falso, di cortesia, di circostanza, quello che ci lascia uno strano brivido sulla pelle.

Effettivamente non è semplice fare attenzione agli aspetti della comunicazione non verbale, è impegnativo e richiede interesse e osservazione. Naturalmente non possiamo trattare tutta la CNV in un breve spazio, ma qualche spunto di riflessione può, comunque, aiutarci a capire, capirci e, perché no, trarre qualche vantaggio in più per la nostra carriera e per la nostra “popolarità”.